mercoledì 31 agosto 2016

Antibinarismo transfobico








Volendo scrivere una storiella con una protagonista trans MtF, mi sono dovuto documentare sul “blocco della pubertà” che spesso viene praticato su* ragazz* che soffrono di “disforia di genere”.

La “disforia di genere”, ovvero il trovarsi in forte disagio con il sesso attribuito alla nascita, non è solo un fenomeno adulto – può capitare anche agli adolescenti e pure ai bambini (di ogni genere); poiché è molto più facile eseguire una transizione (ormonale o chirurgica) su un corpo che non sia stato già fortemente mascolinizzato o femminilizzato dalla pubertà, si propone spesso a* ragazz* che ne soffrono di assumere, non appena inizia la pubertà, degli “ormoni rilascianti gonadotropine (GnHR)”, che hanno l’effetto di bloccare la produzione degli ormoni sessuali.

L’effetto del blocco è solo temporaneo – se si smettono di prendere questi ormoni, la pubertà riprende; questo permette di rimandare la decisione se procedere con una transizione ormonale o chirurgica ad un’età più matura, in cui la legge consente al paziente di decidere da sé. Se la disforia di genere passa, si è solo perso un po’ di tempo; se persiste ed il paziente desidera transizionare, parte da una situazione molto più favorevole.

Inconvenienti seri nella pratica non ne vedo – il rischio più grave mi pare quello dell’osteopenia, ovvero dell’indebolimento delle ossa, in quanto non assistite dagli ormoni sessuali finché dura il blocco della pubertà. Gli altri inconvenienti che lamentano i siti [1] e [2] (sterilità, necessità di assumere ormoni e subire controlli medici frequenti) sono quelli di una transizione completa vera e propria, non del semplice blocco della pubertà.

Non è corretto considerare il blocco della pubertà e la transizione come due fasi del medesimo trattamento, visto che si può decidere di interrompere il primo e non passare al secondo senza inconvenienti di rilievo - non è come in un'operazione di appendicite, in cui, dopo che il medico ha aperto la ferita, non si può lasciare il tavolo operatorio prima che lui l'abbia richiusa.

L'idea che una persona possa essere forzata da un protocollo medico a transizionare contro sua voglia mi pare risibile; il fatto che chi viene sottoposto a questo protocollo abbia tassi di persistenza nel voler transizionare ben superiori rispetto agli altri, si spiega secondo me con due cose: la prima è che le GnRH costano un patrimonio (si calcola che una cura triennale, tra i 13 ed i 16 anni, costi 105 mila Dollari USA, che poche assicurazioni sanitarie coprono), e questo mi fa pensare che i professionisti le prescrivano solo a ragazz* e famiglie ben motivate; la seconda è che il protocollo comprende sedute psicoterapeutiche, che in qualche modo schermano i/le ragazz* dalla transfobia presente nella società.

Oltretutto, le GnRH non vengono usate solo su* ragazz* con disforia di genere: esistono persone che hanno una pubertà precocissima (prima degli 8 anni nelle ragazze, dei 9 anni nei ragazzi) e, quando essa è "idiopatica" (ovvero, non si riesce a trovarne e curarne la causa), si usano le GnRH per bloccarla. Nessuno ha mai sostenuto che in questi casi esse abbiano provocato disforia di genere; così come non si riscontra disforia di genere superiore alla media nelle persone che hanno invece pubertà tardiva.

Che il cervello di una persona sottoposta a blocco puberale non maturi completamente sembra smentito dagli studi (come [3]) che rinvengono uno sviluppo psicosessuale compatibile con il genere di elezione nei ragazzi che hanno avuto sia il blocco della pubertà che la transizione; le argomentazioni di [2] sono più dovute ad un’interpretazione metafisica di Genesi 1:27 che allo stato attuale delle conoscenze mediche, che hanno molto attenuato il rigido binarismo dei sessi e dei generi insegnato fino a qualche decennio fa.

Più valide mi paiono le argomentazioni di [1], che adopera un linguaggio antibinario, che sarebbe molto interessante se non ne venissero tratte conclusioni transnegative.

Traduco le frasi “antibinarie” (nell’originale sono in grassetto) con cui l’autore (non ne conosco il genere) si dichiara d’accordo:
  1. “Se il genere non è determinato dal sesso biologico, perché tentare di cambiare la propria biologia per farla combaciare con la propria esperienza interiore del genere?”
  2. “Se il genere è costruito in modo fluido e non siamo completamente maschi e femmine, perché dobbiamo ‘sceglierne’ uno?”
  3. “Il nostro senso del sé dotato di genere è aperto al cambiamento per tutta la vita, e non viene fissato precocemente. Se questo è vero, e ci credo, perché Ehrensaft [la curatrice di (4)] aiuta i ragazzini a fissarsi in un’identità di genere che deve durare tutta la vita, attraverso il blocco della pubertà ed ormoni del sesso opposto che li sterilizzano?”
  4. “In breve, l’identità di genere è un costrutto che può essere utile per comprendere l’esperienza del genere che hanno le persone. Ma è solo un costrutto. Non c’è evidenza empirica che esista di per sé. Perciò è ben misero motivo per incamminare i bambini verso una strada che porta alla sterilità permanente.”
  5. “Perché, senza fare appello ad un qualche tipo di essenzialismo, non c’è un buon motivo per rischiare la salute e la vita dei bimbi. Se la biologia (il sesso) non è essenziale per il genere, allora cosa lo è?”
Ehrensaft, come viene descritta dall’autore, si è davvero cacciata in un vicolo cieco, in quanto ha generalizzato a tutte le persone trans quella che è l’esperienza di una parte di loro, dette in gergo (ed in modo spregiativo) “Truscum”, ovvero coloro che hanno una concezione binaria dei sessi e dei generi, e sostengono di essere nati nel corpo del sesso sbagliato. È facile ribattere loro che non possono dare alcuna prova empirica di ciò, eppure sulla possibilità di darla basano la propria vita.

È molto più facile partire invece da una concezione strumentale del corpo – ovvero, del corpo come vestito dell’anima [5]. Un vestito deve adattarsi al ruolo che si assume ed al compito che si svolge. La divisa di un carabiniere non è la stessa di una crocerossina, ed un carabiniere subacqueo non indossa la medesima divisa di un carabiniere paracadutista.

In un mondo utopico, non ci sarebbe bisogno di divise per distinguere i militari dai civili, e tutti sarebbero capaci di capire l’identità di genere di una persona senza basarsi sulle apparenze. Una transizione sarebbe perciò superflua, oppure necessitata solo dal desiderio di avere zone erogene diverse da quelle del sesso attribuito alla nascita.

Ma anche in un ristretto gruppo di persone, come le poche decine di partecipanti all’Eurobicon di Amsterdam del 2016 [6], i quali partivano dal presupposto che l’aspetto è una cosa, ed il genere è un’altra, si sono pregati i partecipanti di indossare dei cartellini non solo con il nome, ma anche con il pronome personale preferito (ho visto “He”, “She”, “They” – usato quest’ultimo come pronome pangenere di terza persona singolare), a scanso di spiacevoli fraintendimenti.

In un ambito più vasto, si è obbligati a manifestare la propria identità di genere attraverso il proprio aspetto. L’alternativa, a cui sarei favorevole, non esclusa da [2], ma assolutamente rifiutata da [1] e da [5], è quella di rendere il sesso/genere di una persona socialmente irrilevante. Soltanto il medico è tenuto a conoscere la sua anatomia ed evoluzione.

Oltre alle persone “truscum”, esistono le persone “tucute”, ovvero quelle che hanno un’identità di genere difforme dal loro sesso biologico, ma non desiderano allineare il secondo alla prima – sono quelle che hanno bisogno dei cartellini con il pronome, in quanto loro desiderano un ruolo sociale, non un corpo corrispondente al loro genere, ed ammettono che il ruolo sociale che vogliono impersonare può cambiare nel tempo.

Sembra che abbiano fatto proprie le obiezioni di [2], che però hanno un serio punto debole, il numero 4: anche il denaro è un costrutto (checché ne dicano i sostenitori del sistema aureo), non una realtà empirica (lo avevo argomentato anche in [7]), eppure viene preso tremendamente sul serio.

Un altro punto debole è il sostenere che i bambini sono troppo piccoli per avere un affidabile senso dell’identità, e si fa il paragone con una bambina (notare il sesso/genere!) figlia di genitori cattolici che a cinque anni si dichiari ebrea ortodossa – l’autore dice che riterrebbe giusto portarla a messa comunque, perché così si fa nella sua famiglia, pur non avendo nulla contro questa sua scelta religiosa.

Il paragone è avventato, per diversi motivi. Il primo è che per gli ebrei non c’è un’età minima per convertirsi (vedi [8]), ed anche un* lattante potrebbe teoricamente convincere un tribunale rabbinico che vuole seriamente diventare ebre*, a dispetto dei genitori; semmai, chi si converte prima dei 12-13 anni (12 anni le bimbe, 13 anni i bimbi) può decidere, una volta giunto a quell'età, di NON fare il Bat/Bar Mitzwah (che l* confermerebbe irrimediabilmente come ebre*) e di ritornare gentile. Guarda caso, è quello che si propone con il blocco della pubertà – dare un periodo di grazia a chi vuol transizionare permettendogli di vivere provvisoriamente nel genere di elezione, e decidere definitivamente quando avrà l’età legale per le decisioni irrimediabili.

Il secondo è che l’autore si è ricordato di fare il paragone con una bimba e non con un bambino (perché un bimbo che si converte all’ebraismo ortodosso va circonciso subito), ma si è dimenticato quello che i francescani non lasciano mai scordare: che Sant’Antonio da Padova fece voto di castità a soli CINQUE anni. Nessun cattolico ride di questo voto, e tutti lo prendono sul serio come prodromo della grandezza del santo. Ditemi voi perché un voto di castità è una cosa seria ed una conversione religiosa od una disforia di genere no.

Il terzo motivo è che, quando studiavo giurisprudenza (ho studiato anche questa materia), per l’esame di diritto civile italiano ho dovuto studiare il caso del figlio minore che fa una scelta religiosa in contrasto con quella del genitore – il genitore può imporgli la sua volontà? La risposta era no, perché la religione era una cosa “privatissima”, cioè troppo personale, che andava rispettata anche in un minorenne.

Seguire il consiglio dell’autore, cioè portare una bambina a messa anche se non vuole, non è solo pedagogicamente inopportuno (e fastidioso per chi vuol partecipare alla messa, ma è costretto ad ascoltare invece gli strilli di lei), può mettere il genitore nei guai. Un genitore più furbo fa visitare una sinagoga alla bimba, perché lei si renda davvero conto che significa essere una donna ebrea (lo ammetto, è una rosa con molte spine), e lascia che poi maturi la decisione – tanto, nessun rabbino ha fretta di convertire. E, a parti invertite, nemmeno i ministri del culto cristiani.

Raffaele Yona Ladu
Ebre* genderqueer


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