lunedì 28 settembre 2015

Provvisorio commento al Libro di Giona
















Essendomi stato chiesto da un'allieva della Facoltà Valdese di Teologia di parlare del Libro di Giona [0], provo a dirne provvisoriamente qualcosa.

L’islam non è una religione indipendente da ebraismo e cristianesimo, ed anzi spesso è prezioso perché esso ha accolto tradizioni che ebrei e cristiani hanno rifiutato – quindi val sempre la pena indagare su come il Corano e la Sunna rendono una storia biblica, ed è interessante perciò il sito [1].

Nella versione che riporta del racconto, Yunus = Yonah = Giona è reso quasi superfluo: infatti egli abbandona la missione dopo aver vanamente tentato di convertire gli abitanti di Ninive, ma Dio rimedierà atterrendo gli abitanti con un prodigio - il cielo che diventa innaturalmente rosso, annunciando una tempesta mai vista. Quando Giona tornerà a Ninive dopo peripezie simili a quelle bibliche, gli rimarrà solo da ammaestrare gli abitanti al culto dell’unico Dio.

Negli ahadith, Giona è meritevole di stima per il modo in cui ha pregato dentro il pesce che lo aveva ingerito, quando la situazione era disperata, venendo così miracolosamente salvato, non per il primo vano tentativo di convertire i niniviti.

Invece, nella versione ebraico-cristiana, Giona è indispensabile per questa missione – nessun altro la può fare. Non è chiaro il perché, ma posso pensare che Giona fosse un predicatore/darshan eccezionale, capace di portare Dio in mezzo a coloro che lo ascoltavano.

Gli abitanti di Ninive non potevano essere convinti da un prodigio, ma potevano credere alla testimonianza di un altro essere umano.

In Matteo 16:1-4 [2] Gesù allude al medesimo prodigio di cui parleranno gli ahadith citati in [1] (il cielo che diventa rosso), ma avverte anche che il medesimo segno non è univoco, ed a seconda del momento può essere benigno (annunciare il sereno) o maligno (annunciare una tempesta).

Leggete qui (Versione Nuova Riveduta):
1 I farisei e i sadducei si avvicinarono a lui per metterlo alla prova e gli chiesero di mostrare loro un segno dal cielo.
2 Ma egli rispose: «Quando si fa sera, voi dite: "Bel tempo, perché il cielo rosseggia!"
3 e la mattina dite: "Oggi tempesta, perché il cielo rosseggia cupo!" L'aspetto del cielo lo sapete dunque discernere, e i segni dei tempi non riuscite a discernerli?
4 Questa generazione malvagia e adultera chiede un segno, e segno non le sarà dato se non quello di Giona». E, lasciatili, se ne andò.
Credo che l'affinità tra il brano evangelico di [2] e gli ahadith di [1] testimoni che (come spesso accade, ricordava Shlomo Dov Goitein) quegli ahadith riprendano dei midrashim ebraici poi dimenticati (o respinti, precisa Pawel Gajewski), e che questi fossero già diffusi all'epoca di Gesù.

Gesù sembra sfidare i suoi avversari lasciando intendere che non devono credere che le cose accadranno come in quei midrashim, ovvero che, se non credono al profeta inviato loro, Dio Benedetto comunque darà loro un'altra chance inviando un prodigio che li costringerà a ricredersi.

Cosa più importante, un segno celeste non può provare nulla (concorderanno qualche secolo dopo i medesimi farisei che lo chiesero a Gesù, in bBava Metzi'a 59b [3] - e forse per questo quei midrashim sono stati abbandonati dagli ebrei e solo i mussulmani li hanno tramandati sotto forma di ahadith: erano ormai diventati incompatibili con la nuova “teologia” ebraica) perché può essere comunque interpretato in molti modi. La fede in Dio è innanzitutto la fiducia in chi lo annuncia - e per questo Gesù, il segno richiesto, non lo dà.

Tutto questo conferma che per convincere occorre argomentare, non semplicemente mostrare, e questo Giona lo sapeva bene, visto che i midrashim, questa volta tramandati dagli ebrei e riassunti in [4], dicono che egli aveva già avuto grande successo, convertendo gli abitanti di Gerusalemme - ed a leggere le lamentele non solo dei Vangeli, ma anche dei Profeti, doveva essere stato il capolavoro della sua vita!

Ma la gratitudine non è la specialità di nessuno, ed i gerosolimitani, anziché ringraziarlo per aver salvato loro la vita, sparlarono di lui dicendo che aveva “toppato” e non lo si poteva perciò considerare un vero profeta.

Per questo (i midrashim cercano sempre di scagionare i personaggi biblici - ed anche gli ahadith citati mostrano un Giona che la sua missione aveva provato ad adempierla, ed aveva solo ceduto allo sconforto), non aveva voluto andare a Ninive – temeva di lavorare solo per guadagnarsi un’altra volta l’ingratitudine di coloro che salvava.

Secondo lo Zohar, quando Giona arrivò a Joppe/Giaffa per imbarcarsi e continuare la sua fuga, non trovò alcuna nave in porto – da due giorni erano salpate tutte. Ma l’Eterno mandò un vento contrario che ne riportò una (e solo quella! Le altre continuarono la loro rotta) in porto, per permettere a Giona di salirvi a bordo.

Giona non era uno stupido, ed il prodigio era evidente – ma deve aver creduto che Dio avesse voluto informarlo di aver rinunciato ad affidargli quella missione, e per quello gli metteva a disposizione la nave per andarsene lontano dalla Sua Presenza. Come ho scritto prima, i prodigi sono spesso ambigui, ed anche un profeta del valore di Giona può fraintenderli.

Giona era tanto persuaso della sua interpretazione da permettersi il lusso non solo di pagare tutto il viaggio in anticipo (cosa contraria all'uso dell'epoca, secondo i midrashim citati), ma anche di dormire profondamente in mezzo alla tempesta, convinto di non correre alcun pericolo.

Sia in Levitico 16:7-8 [5] che nel Libro di Giona si tirano le sorti per decidere che capro o che persona sacrificare – e questo stabilisce un legame tra i due libri. Ma ben diverso è il comportamento delle persone.

Che io sappia, nessun Sommo Sacerdote si è mai vergognato di dovere la salvezza del suo popolo all'aver abbandonato ad Azazel un capro scelto a sorte, ma i marinai della nave fanno invece una cosa semplicemente pazzesca in Giona 1:13.

Ho fatto da giovane un corso di vela, e mi è stato spiegato che, se ci si trova in mezzo ad una tempesta, ci si deve “mettere alla cappa” – ovvero rimanere in acque profonde, mettere la prua controvento (è la posizione in cui lo scafo è meno sollecitato dal vento e dalle onde), regolare le vele od i motori in modo da frenare la nave, ed aspettare che la tempesta passi, sperando che lo scafo nel frattempo regga.

Cercare di accostare ha senso solo se si può entrare in un porto sicuro, con acque profonde all’ingresso e calme all’interno. Altrimenti avvicinarsi alla riva significa solo che, non appena si arriva dove il fondale è meno profondo delle onde, la nave viene o schiacciata contro il fondale, o scagliata contro la costa. Si perdono scafo, carico e vite umane. Complimenti al nocchiero!

O l’autore del libro biblico non capiva niente di nautica (e la cosa è possibile – la Bibbia non è un libro di scienza e, al contrario degli israeliani di oggi, gli israeliti di allora temevano il mare), oppure ha voluto descrivere dei marinai così riluttanti al dovere la vita al sacrificare una persona estratta a sorte, da preferire il morire tutti loro invece.

Si va oltre Abramo che intercede per Sodoma e Gomorra in Genesi 18 [6], badando bene però a non rimanere lui invece vittima dell'ira divina; si arriva al livello di Mosé, che in Esodo 32 [7] dice a Dio che preferisce morire piuttosto che sopravvivere al popolo d’Israele che aveva peccato!

In Esodo 32:26-27 Mosè mobilita i leviti per sterminare gli ebrei peccatori; i marinai invece non vogliono assolutamente fare questo - la rigida esclusiva difesa dell'identità ebraica diventa un'inclusività che cerca di salvare pure chi Dio ha (solo) apparentemente condannato a morte.

La solidarietà collettiva, valore ebraico fondamentale, non si esprime qui estirpando chi può attirare sulla comunità l'ira divina, ma cercando ad ogni costo di salvargli almeno la vita.

Non si creda che l'innovazione sia solo nei Profeti: in Deuteronomio 22:8 [8], brano che il calendario ebraico fa leggere nell'imminenza dello Yom Kippur, si prescrive di costruire un parapetto intorno ad una terrazza, perché la casa non sia responsabile del sangue di chi cade da lì.

L'interpretazione ebraica comune è che, se Dio vuol far cadere qualcuno, non c'è modo di impedirglielo, ma guai ad essere il suo strumento in questo! Bisogna sempre proteggere una vita umana - non tocca ad un essere umano chiedersi che cosa Dio vuole farne. Era stato l'errore di Giona questo, ma i marinai se ne guardano bene.

Uno dei midrashim citati in [4] dice che, dopo aver visto che Giona si era salvato, i marinai che lo avevano gettato in mare si convertirono all'ebraismo - direi che loro si erano già comportati in maniera sublimemente ebraica, e che questa conversione era solo un pro forma.

E loro poterono poi convertirsi, a dar retta al midrash, perché l’Eterno non voleva vittime inutili, ma che Giona fosse ingoiato dal pesce – perciò questa pazza manovra non riesce, la nave resta in mare aperto, e Giona viene gettato in mare.

Di quel pesce i Pirqei de-rav Eli'ezer e lo Zohar, citati in [4], dicono che era tra le cose create all'inizio dei tempi; l'elenco classico di queste cose, che si trova in Bereshit Rabba 1:4 [9], è questo:
  1. la Torah;
  2. il Trono di Dio;
  3. i Patriarchi (concepiti nel pensiero, non ancora effettivamente generati);
  4. il popolo d'Israele (anche qui, concepito nel pensiero, non ancora effettivamente costituito);
  5. il Tempio (anche qui, solo nel pensiero);
  6. il nome del Messia;
  7. il pentimento (teshuvah), secondo l'isolato ma autorevole parere di rav Ahava Brei D'rav Zera.
Sono tutte cose senza le quali l'ebraismo era (ed è) inconcepibile dai rabbini; aggiungere il pesce che avrebbe ingoiato Giona significava renderlo uno dei fondamenti dell'ebraismo.

Viene il sospetto che lo scopo di tutta la missione non fosse convertire i niniviti, ma Giona; e che per riuscirci fosse necessario proprio quel pesce.

Di tutte le cose che [4] dice di lui, due mi hanno particolarmente colpito: la prima è che Giona poteva vedere quello che c'era intorno al pesce (o attraverso gli occhi del pesce, o grazie ad una perla prodigiosa che quel pesce conteneva), la seconda è che Giona fu condotto dal pesce a vedere le meraviglie dell'oceano, tra cui il tratto del Mar Rosso che gli ebrei attraversarono uscendo dall'Egitto, ed i pilastri della terra.

Di codesti pilastri le Massime dei Padri, Capitolo 1 [10], danno due definizioni alternative:
[1:2] Simeone il Giusto era tra gli ultimi superstiti della Grande Assemblea. Diceva: "Il mondo si regge su tre cose: la Torah, il culto, e le opere di bene". 
[1:18] Rav Simeone figlio di Gamaliele diceva: "Su tre cose si regge il mondo: la giustizia, la verità e la pace. (...)"
È solo perché entrambi i rabbini insistono che i pilastri della terra sono solo tre che non possiamo dare ragione ad entrambi - e sembra anche il rammarico del compilatore della Mishnah; quello che si può dire è che, se la prima definizione è precoce e particolaristica, ovvero si addice soprattutto agli ebrei, la seconda è tardiva ed universalistica, ovvero vale per tutti.

In teoria, non ci sarebbe bisogno di un pesce prodigioso per vedere quei pilastri, ma quel pesce non ha portato Giona in "visita guidata" ai luoghi focali (tra cui quello in cui gli ebrei attraversarono il Mar Rosso) della storia e dell'identità ebraica solo per aumentare la sua cultura generale - il viaggio subacqueo doveva edificare Giona facendogli capire che la sua missione a Ninive continuava e compiva il lavoro iniziato da Mosé con la costituzione del popolo ebraico, facendo di questo popolo uno strumento di redenzione delle nazioni.

Come spiegò rav Elia Benamozegh (1824-1900) in [11], il popolo ebraico è come un ordine religioso che ha bisogno, per mantenere la sua coesione interna, di una regola più rigida (la Torah) di quella che predica ai laici (il noachismo).

Gli ebrei tendono a vedere nello Yom Kippur una giornata che riguarda solo loro, ed i brani del Pentateuco prescritti per quel giorno incoraggiano questo; ma il Libro di Giona, che anch'esso deve essere letto quel giorno, spiega come esso serva a preparare la redenzione anche delle nazioni.

In [12] avevo commentato Matteo 20:1-16, facendo notare che quella parabola sembra proprio un sermone di Kippur, ed avevo contestato la classica interpretazione cristiana (secondo cui i primi chiamati a lavorare nella vigna sono gli ebrei, e gli ultimi i gentili), in quanto essa presupporrebbe che lo Yom Kippur fosse interpretato da Gesù in modo più universalistico di come fanno abitualmente gli ebrei.

Ma quello che ho detto ora della vicenda di Giona mi smentisce, in quanto mostra che un ebreo di grande caratura, come certo era Gesù, poteva averlo fatto. Un sermone di Kippur può essere aperto alla possibilità che anche i gentili beneficino dell'alleanza prima riservata agli ebrei - Giona, il riluttante ma fenomenale predicatore, così ha fatto con i niniviti.

Nel calendario ebraico, è Sukkot, la Festa dei Tabernacoli, quella in cui gli ebrei si preoccupano esplicitamente dei gentili, sacrificando 70 tori (uno per [mitica] nazione), finché c'era il Tempio, per espiarne i peccati; i rabbini hanno notato che le somiglianze tra le celebrazioni di Kippur e Sukkot non si limitano alla successione cronologica (vedi [13]), ma non so se sia mai stato tentato uno studio più approfondito del mio sull'universale valenza di Yom Kippur.

Si potranno dire tante altre cose, l'ultima delle quali mi pare: "Chi rappresenta Giona?" Tutte le risposte si possono sussumere ne: "Il redentore di tutte le nazioni". La mia personale interpretazione è che questo redentore sia il popolo ebraico nel suo complesso.

Yonah, la versione ebraica originale del nome Giona, vuol dire letteralmente "colomba" [Strong 03123], e la parola compare per la prima volta in Genesi 8:8 [14], quando Noé invia la colomba in ricognizione, ed in Genesi 8:11 la colomba torna con il ramoscello d'ulivo nel becco, a mostrare che Dio ha fatto pace con l'umanità e promulgherà il Brit Noach = Alleanza noachide con essa.

Giona, nuova colomba, deve proclamare alle nazioni quest'alleanza - superando i per altri versi comprensibili risentimenti verso la prima di loro, Ninive, attestati pure da Isaia, Naum, Sofonia.

Uno dei midrashim citati in [4] dice che Giona non pagò solo tutto il viaggio in anticipo - comprò pure nave e carico. Divenne perciò l'armatore, ed il fatto che i marinai si permettessero di intimargli di pregare (perlomeno) non deve stupire: in mare si obbedisce al capitano, e lo deve fare anche l'armatore, che in teoria potrebbe licenziarlo.

Inevitabile è paragonare nuovamente quella nave all'Arca di Noé - che impone a chi è a bordo un comportamento esemplare, e salva Giona in un modo a priori impensabile, portandolo all'appuntamento con il pesce. Puoi essere il padrone della barca, ma non decidi tu la rotta.

Raffaele Yona Ladu

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